FATTICCIONI, DAL SOGNO DELLA A ALL´ECCELLENZA CON IL PIOMBINO
17-11-2016 19:36 - Prima Squadra

PIOMBINO «E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai, di giocatori tristi che non hanno vinto mai, e hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro, e adesso ridono dentro a un bar».
Fonte: Il Tirreno
Il Nino calciatore di Francesco De Gregori somiglia un po´ ad Alessio Fatticcioni, anche se lui è un fan di De Andrè. Perché anche Alessio ne ha visti, di calciatori del genere.
Lui stesso ha sfiorato il calcio che conta, quello che ti svolta la vita. Lo ha solo pregustato. Sognava di passare in prima squadra, alla Fiorentina. O comunque di trasformare una passione in una professione. Il risveglio è stato come un gol preso a tempo scaduto in una finale dopo una partita dominata.
Eppure nelle vene di Alessio scorre sangue di calciatori. Nipote d´arte, più che figlio, Fatticcioni porta nel finale del cognome paterno quello del nonno materno, Franco Cioni. Da lui ha ereditato la passione calcistica. Gli è stata trasmessa come un marchio di famiglia, al pari della bellezza.
Alessio era un bambino come tanti che giocava a pallone nel Salivoli. A dodici anni è finito nelle giovanili della Fiorentina dove ha fatto tutta la trafila: Giovanissimi, Allievi, Primavera. Faceva coppia fissa in difesa con Michele Camporese, erano i centrali della speranza viola. Camporese poi collezionò un pugno di presenze in prima squadra, passò a Empoli, ora è a Benevento in serie B dove non trova spazio.
Di Alessio hanno sempre detto un gran bene, pareva un predestinato.
Fino a quando non si è trovato al centro di un gioco diverso, dove in campo c´erano procuratori, direttori sportivi, presidenti, sponsor. Nell´anno della verità, quello in cui esci dal vivaio e vieni mandato a farti le ossa in qualche serie inferiore, Alessio fu spedito in C2 nella polveriera di Campobasso. Poi due anni al Gavorrano, quindi alla Torres Sassari. In mezzo un vortice di promesse, errori, trappole. Finché lui non ha detto basta.
Da due anni gioca nella sua città, a Piombino. In Eccellenza. Ma Alessio non è triste, per tornare alla canzone di De Gregori. Alessio è solo un disilluso. 24 anni, studente di Scienze politiche, parla come se di anni ne avesse il doppio. Maturo, schivo, timido.
Realista e pragmatico, non esclude una nuova chance ma sa godersi il presente. «Io sono orgoglioso di giocare nella squadra della mia città e mi piacerebbe portarla in serie D».
Alessio, partiamo dall´inizio. Da quando eri bambino.
«Ho cominciato come tanti bimbi nel Salivoli, con nonno Franco allenatore. Anche se al campo non era il nonno, ma il mister. E se volava una partaccia, quella toccava a me. A Salivoli sono rimasto fino a 12 anni. In primavera la Fiorentina organizzò un raduno provinciale e inviò a Salivoli due osservatori. Scelsero me e Alberto Papa (suo attuale compagno nel Piombino, ndr), ci invitarono a Firenze e facemmo la preparazione lì. Poi però il direttore sportivo Pantaleo Corvino fece una selezione e rimasi solo io. Mamma voleva che finissi le medie a Piombino e così il primo anno i miei mi portavano su e giù in macchina per gli allenamenti e le partite».
In che ruolo giocavi?
«Centrocampista. Ma al secondo anno di Giovanissimi passai con i nazionali e in quel ruolo arrivarono quattro o cinque ragazzi con i procuratori. Così fui spostato in difesa».
Già i procuratori a 13 anni?
«Eh sì. Io non sapevo nemmeno cosa fosse un procuratore. Quei ragazzi erano bravi eh, però non tutti. Eppure tutti giocavano. A me bastava essere lì. Anche nel nuovo ruolo cominciai a giocare con continuità. Venni confermato, passai negli Allievi ed ebbi la fortuna di essere inserito subito nei nazionali con mister Renato Buso, che poi avrei ritrovato a Gavorrano».
Parli sempre di fortuna, magari te lo meritavi.
«Forse. Ma per me tutto ciò che arrivava era in più. Al secondo anno vincemmo lo scudetto 2009. Era un bel gruppo».
Come ti eri sistemato a Firenze? Con chi abitavi?
«Aldo Agroppi conosceva una famiglia che mi ospitò il primo anno. Poi andai a vivere da solo con un altro compagno. La Fiorentina aveva anche un convitto ma solo per chi veniva da fuori regione. Mi iscrissi al liceo scientifico. La mattina andavo a scuola, poi mangiavo al ristorante della società e mi allenavo. Quindi a casa a studiare, poi ancora al ristorante e a letto. Piano piano ti abitui».
Ricordi il primo giorno di liceo a Firenze?
«Sì, ci rido ancora. Non conoscevo nessuno e mi chiesero cosa ci facesse lì uno di Piombino. Quando dissi che giocavo nella Fiorentina diventai amico di tutti. A Firenze c´è una passione unica per la Viola. Da un lato mi faceva piacere, dall´altro però mi sentivo sempre gli occhi addosso».
E pensare che tifi per la Juve.
«Sì, ma sono legatissimo ai colori viola. E un paio di gol glieli ho anche fatti in quel periodo ai bianconeri».
Con la Primavera diventasti un beniamino dei tifosi.
«Perché la prima squadra andava maluccio e noi invece andavamo bene, attiravamo l´attenzione. Ci seguivano anche gli ultrà, per noi fu una bella spinta. La gente ti riconosceva anche per strada, al ristorante, chiedeva una foto. Era eccessivo, in fondo non avevo fatto niente».
Ricordi il primo allenamento con la prima squadra?
«Eccome. L´allenatore era Mihajlovic, ero emozionato. Però c´era tensione, poco spazio per le risate. Mi sono goduto il momento ma sempre restando concentrato perché a farsi mandare a quel paese da Miha non ci voleva nulla».
Cosa ti ha colpito al primo impatto coi giocatori di serie A?
«A parte il ritmo, il fisico e la tecnica? La mentalità, la testa di un giocatore di serie A. Professionisti che curano i dettagli, il cibo, il sonno, l´atteggiamento. Penso a Frey e Gamberini, gente che non aveva neanche bisogno di parlare. Capitani rispettati da tutti. Io rubavo con gli occhi perché non bastano gli allenamenti, ci devi mettere il tuo».
Anche tu poi ti rivolgesti a un procuratore?
«Sì, più che altro un amico di famiglia. Credevo che magari più avanti mi sarebbe potuto servire. In effetti alla fine del secondo anno Primavera riuscì a strappare a Corvino un vero contratto professionistico. Tre anni più l´opzione sul quarto. Nel frattempo fu rivoluzionata la prima squadra. A me però bastava una squadra di C per giocare coi grandi. C´era la Carrarese per esempio, in C1, dove andarono Taddei, Bagnai e quel Piccini che ora gioca nel Betis Siviglia. Ma il diesse del Campobasso, in C2, era amico di Corvino. E mi mandarono lì in prestito secco di un anno. A metà luglio partii in ritiro vicino a Salerno e capii dove ero finito. Mancavano il massaggiatore, il dottore, il ghiaccio, le medicine. Tornai a Campobasso e, la sera prima del debutto in Coppa Italia, lo stadio era stato chiuso dal Comune. Tutti gli accordi saltati, niente vitto e alloggio. Il presidente venne negli spogliatoi scortato dalla Digos. Ho visto giocatori disperati dormire in macchina. Nel girone di andata giocai solo 5 o 6 partite. Così a gennaio decisi di venire via. Il presidente Ferruccio Capone accettò, a patto che rinunciassi a tre mensilità. Allora ti pagavano ancora a scadenza di tre mesi. Corvino ci convinse ad accettare, la Fiorentina chiese la rescissione e firmammo tutti. L´ultimo giorno di mercato, a fine gennaio, andai a Milano col procuratore. Corvino mi aveva promesso che, nel caso in cui non avessimo trovato niente, sarei rimasto a Firenze. Alle 19 si fece avanti L´Aquila che chiese in cambio solo una specie di premio di addestramento, sei o settemila euro. E Corvino disse no. Perché io sarei stato un peso per la Fiorentina. E non depositò volutamente quel contratto già firmato. Mi ritrovai ancora legato al Campobasso. Ma come avrei potuto tornare laggiù? Così venni a Piombino e in quei tre mesi mi allenai a Salivoli. Poi intrapresi una battaglia legale con Corvino che fu squalificato per tre mesi».
E passasti al Gavorrano.
«Sì. Quell´estate i nuovi diesse Pradè e Macia fecero piazza pulita anche nelle giovanili. Via tutti, compresi Carraro e Iemmello che ora gioca nel Sassuolo. Io fui chiamato da mister Buso al Gavorrano, in C2. In comproprietà, poi a titolo definitivo. Due anni bellissimi. Il primo giocai 32 partite e fui convocato nella Nazionale di C. La stagione dopo giocai quasi tutte le partite ma retrocedemmo, purtroppo era l´anno in cui si passava alla Legapro unica e su 18 squadre ne scendevano 9».
Fu l´anno della Sardegna.
«E delle assurdità. L´ultimo giorno di mercato il mio procuratore trattò il passaggio di Bigazzi, ex Livorno, alla Torres Sassari. E infilò nel pacchetto anche me. Bigazzi poi si ruppe il crociato. Io a mia volta arrivai troppo tardi, quando la squadra era già definita. Ero il secondo più giovane e il quarto centrale. Stavo bene a Sassari, ma non trovavo spazio. A metà gennaio mi scaricarono e firmai la rescissione. Lo Scandicci in serie D mi voleva e io ci andavo stravolentieri, l´allenatore era Ciccio Baiano. Prima trovammo l´accordo, poi si scoprì che era tutto nullo: avrei dovuto firmare la rescissione prima del 31 dicembre per passare da professionista a dilettante. E il mio procuratore non lo sapeva. Tornai ancora a Salivoli, ad allenarmi per altri tre mesi. La fine del mio rapporto col procuratore arrivò quando mi fece saltare anche l´ingaggio del Montecatini perché voleva mandarmi alla Recanatese, sempre come pacco allegato a un altro giocatore. A quel punto dissi basta. Da tempo Enzo Madau, il diesse del Piombino, faceva pressioni su di me. Accettai. E devo dire che sono felice».
Dal sogno della serie A all´Eccellenza.
«Non esageriamo. Certo, il sogno era quello, ma anche meno. Cerco di non pensarci. E se è andata così è per tanti motivi. Ci metto anche i miei errori. Però ho imparato tanto».
E la cosa più importante che hai imparato qual è?
«Comportarsi bene. Con i compagni, con l´allenatore, con il presidente, con il magazziniere. Questo alla lunga paga sempre».
Con i compagni del Piombino come ti trovi?
«Benissimo. Con tanti ci conosciamo da quando eravamo piccoli, poi c´è il gruppo dei livornesi che è fantastico. Con mister Miano abbiamo giocato anche nel Gavorrano. Mi considerano quello che ha più esperienza, mi stimano. I giovani vengono per un consiglio, in campo mi cercano nelle situazioni difficili. Significa che qualcosa dai anche a loro e loro te lo restituiscono».
A fine allenamento ti occupi anche dei piccoli calciatori. Magari da adulto farai l´allenatore?
«Non lo so. So solo che allenare i piccoli marmocchi mi fa stare bene. E poi è anche un omaggio a nonno Franco».
Intervista di Alessandro De Gregorio per Il Tirreno,
Fonte: Il Tirreno